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Negli ultimi 15 anni l’industria del fashion ha raddoppiato le produzioni mentre il tempo di vita di un prodotto prima di essere gettato via si è abbassato del 40%. Di quelli buttati via, il 73% sarà bruciato o finirà nelle discariche: si parla sempre più spesso del costo ambientale del settore del fashion. Una t-shirt di cotone in produzione «beve» 2.700 litri d’acqua, un paio di jeans 3.781 - senza contare le emissioni di CO2 e l'inquinamento acquifero causato dalla produzione e distribuzione. Dal 1996, la quantità di indumenti acquistati nell'UE per persona è aumentata del 40% a seguito di un repentino calo dei prezzi. Questo ha comportato la riduzione del ciclo di vita dei prodotti tessili: i cittadini europei consumano ogni anno quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11 kg. Ma il consumatore sta diventando sempre più consapevole, così come le aziende, che vogliono allineare i propri ideali e i propri metodi i nuovi standard settati dal mercato.

Verso un settore tessile circolare

In questo contesto si inserisce l'economia circolare e l'upcycling: nel 2019, la Commissione Europea ha identificato i materiali tessili come una categoria commerciale su cui intervenire in maniera prioritaria nel quadro dell'economia circolare. Come spiega l'Agenzia Europea per l'Ambiente, aziende private e autorità pubbliche stanno vedendo sempre di più il potenziale economico, sociale e ambientale di un sistema tessile circolare. Ma i nuovi business model strutturati come tali non possono essere casi isolati - è imprescindibile che l'intero sistema sia supportato da policy e regolamentazioni. Oltre a tutto questo, un cambiamento a livello educativo e comportamentale che coinvolge l'intero sistema - dalla produzione al trasporto, dall'utilizzo al consumo - è parte essenziale del cambio verso la circolarità. Come sempre, da ogni sfida e cambiamento, sono molte le opportunità da cogliere. Quando la riduzione dei rifiuti, l’ottimizzazione delle risorse e l’economia circolare incontrano il merchandising: abbiamo parlato con Raen Bonato, founder di What If Upcycle, parte della Community di Talent Garden Fondazione Agnelli.  Si tratta di un servizio di merchandising sostenibile per il B2B che, partendo da scarti, giacenze o prodotti invenduti (tutto ciò che si può cucire) realizza accessori unici, funzionali e made in Italy.

Ciao Raen! Cosa è What if Upcycle e di cosa si occupa?

Raen: What If Upcycle è, in poche parole, il merchandising del futuro. Ci occupiamo di fare consulenza alle aziende, analizzando gli scarti, gli invenduti e gli esuberi di magazzino del cliente e studiando un merchandising su misura, uscendo dalle logiche di collezioni, stagionalità e genere.

Ora vi spiego meglio: avete presente il merchandising aziendale classico? Ossia quello che viene importato dalla Cina, e successivamente brandizzato con stampa o ricamo del logo dell’azienda che lo ordina? Ecco, What If é la versione di qualità, green, etica e made in Italy di quel merchandising.

Come nasce la vostra idea?

Raen: L’idea nasce durante il primo lockdown. E nasce grazie alle competenze e all’esperienza maturata negli anni di lavoro nel settore abbigliamento, ma soprattutto grazie alla creatività, l'elemento distintivo del mio carattere e del mio lavoro.

Il periodo di calma obbligata è stato fondamentale per poter poter analizzare da dove sono partito, mettendo in luce dinamiche già sperimentate in passato e che grazie ad un economia dell'abbigliamento improvvisamente mutata erano tornate attuali. Successivamente è stato il momento di creare un team: da che ero solo, si sono create sinergie con diversi professionisti e figure con cui già collaboravo, creando in questo modo un squadra dinamica e flessibile. Adesso siamo in cinque in un team completo e affiatato.

Quali sono gli stakeholder coinvolti nel vostro processo?

Raen: Nasciamo per essere snelli e dinamici. Questo si traduce in una rete di fornitori selezionati sparsi su tutto il territorio nazionale capaci di produrre prodotti di qualità al giusto prezzo, tutto questo in tempi ragionevoli. I nostri clienti sono tutte quelle aziende che hanno scarti tessili, plastici o di pelle che si possano cucire. La nostra è una nicchia nella nicchia, ossia facciamo upcycling solo su materiali che si possano cucire e questo ci rende l’unica realtà italiana che opera esclusivamente su questo preciso segmento di mercato. Possiamo lavorare con società sportive, società del mondo trasporti, aziende tessili ma anche aziende metalmeccaniche ridando vita magari alle divise da lavoro dei loro dipendenti. Il raggio d'azione è estremamente ampio.

Il vostro punto di partenza sono gli scarti, le giacenze o i prodotti invenduti: di che quantità stiamo parlando?

Raen: Secondo il World Economic Forum, negli ultimi 15 anni l’industria del fashion ha raddoppiato le produzioni mentre il tempo di vita di un prodotto prima di essere gettato via si è abbassato del 40%. Di quelli buttati via, il 73% sarà bruciato o finirà nelle discariche.

Quello che viene raccolto per essere ricolato è attorno al 12%, e finirà per essere tritato e usato per riempire materassi, o trasformato in isolante o panni per la pulizia. Meno dell'1% di ciò che viene raccolto sarà usato per creare nuovo abbigliamento.

Quindi, qual è l’impatto di questi materiali a livello ambientale?

Raen: Queste tendenze stanno chiaramente danneggiando l’ambiente: l’industria sta già perdendo 560 miliardi di dollari di valore per il fatto che i vestiti vengono indossati meno e riciclati a malapena. Nel 2018, 17 milioni tonnellate di rifiuti tessili sono finiti in discarica e ci vorranno almeno 200 anni affinché si decompongano. Una t-shirt di cotone in produzione «beve» 2.700 litri d’acqua, un paio di jeans 3.781. La moda ha dunque un costo ambientale e se è destinata a durare poco tutto si moltiplica comprese le emissioni di Co2 di aziende e mezzi di trasporto.

L’impatto, quindi, è sicuramente devastante. Per esempio, se parliamo di emissioni di gas a effetto serra, si calcola che l'industria della moda sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme. Secondo l'Agenzia europea dell'ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell'UE nel 2017 hanno generato circa 654 kg di emissioni di CO2 per persona.

Parlando invece dei rifiuti tessili in discarica, anche il modo in cui le persone eliminano gli indumenti che non si vuole più tenere in casa è cambiato: molti capi vengono gettati anziché donati.

Dal 1996 la quantità di indumenti acquistati nell'UE per persona è aumentata del 40% a seguito di un repentino calo dei prezzi. Questo ha comportato la riduzione del ciclo di vita dei prodotti tessili: i cittadini europei consumano ogni anno quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11 kg. Gli indumenti usati possono essere esportati al di fuori dell'UE, ma per lo più vengono inceneriti o portati in discarica (87%). A livello mondiale, meno dell'1% degli indumenti viene riciclato come vestiario, in parte a causa di tecnologie inadeguate.

Il consumatore è sempre più consapevole, e spesso si parla di produrre con materiali e tecniche sostenibili - ma i temi del recycle e upcycle non sono ancora così popolari come potrebbero essere. Quali sono i vantaggi del vostro modello?

Raen: Quello che offriamo ai nostri clienti oltre alla trasformazione del capo in merchandising nuovo, è anche l’intero smaltimento di quel lotto di prodotto dal loro magazzino. Grazie alla collaborazione con cooperative riusciamo a riutilizzare quel materiale e a ridargli valore anche sotto un aspetto etico e sociale.

A livello di immagine, inutile dire che è un processo virtuoso e per le aziende che ne beneficiano è molto interessante da divulgare sotto il profilo marketing a tutti i suoi clienti, prendendo così una posizione reale nei confronti della salvaguardia dell’ambiente e mostrare gesti concreti all’indirizzo di questo tema. Un'azienda sensibile a livello sostenibile, oggi, significa all’avanguardia!

Sulla carta, sembra la soluzione perfetta - eppure una realtà come la vostra è ancora un’eccezione. Secondo te, quali sono le barriere ancora in atto contro questo modello? Cosa manca alla sensibilità delle aziende?

Raen: Manca la visione e spesso la mentalità. La prima domanda che il cliente medio fa è: "Quanto mi costa?”. Domanda lecita, che va però vista pensando ad un'operazione più ampia di una semplice produzione di pezzi. Inoltre una cosa molto interessante di questo modello di business che attuiamo riguarda l’industrializzazione del processo produttivo: detta in parole povere trasformando il capo di abbigliamento “x" nell'accessorio “y" possiamo abbassare notevolmente i costi di produzione in relazione al numero di pezzi prodotti.

Cosa vuol dire innovazione nel settore del merchandising sostenibile? E per What If Upcycle?

Raen: Vuol dire creare qualcosa di nuovo basandosi su un momento storico che ha esigenze diverse da quelle che c’erano poco tempo fa. Nel nostro caso si parte analizzando un modello di business vecchio e riadattandolo a nuove esigenze in questo caso quella della salvaguardia del nostro pianeta, trovando soluzioni creative che stiano in piedi anche sotto l’aspetto economico.  Nel mondo del merchandising per esempio fare upcycling made in Italy ha doppia valenza perché riutilizzi tessuti di scarto e lo fai in Italia, evitando costi di trasporti e inquinamento.

In che modo Talent Garden fa parte della vostra strategia aziendale?

Raen: Talent Garden vuol dire molte cose. A livello di network per noi é fondamentale poter condividere idee e pensieri con persone che hanno un punto di vista dinamico, fresco e che siano aperti al cambiamento.

Talent Garden ha innovato il modo di lavorare sotto il profilo dello stile di vita e delle abitudini e fa quello che noi facciamo sul mondo del merchandising - innovare appunto. Questo é il filo conduttore tra le nostre visioni ed è per questo che le nostre strade si sono incontrare in modo naturale.

Articolo aggiornato il: 09 agosto 2023
Talent Garden
Scritto da
Talent Garden, Digital Skills Academy

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